I giovani artisti italiani degli anni ’90 hanno gestito l’impossibilità di credere in se stessi declinandola in una ricerca che, meglio dei loro predecessori, affrontasse il vuoto irriducibile della condizione artistica. Penso agli artisti operanti a Milano fra i quali, numerosi, vi ero anch’io; ovvero artisti che si sono presentati entusiasticamente impreparati (e come non esserlo) ad affrontare un paese e un settore artistico ormai irriguardosi nei confronti del grande vuoto; irriguardosi e superficiali con i propri fragili artisti. Gli artisti famosi, internazionali, hanno riempito illusoriamente il grande vuoto con tonnellate di pittura e oggettistica, spensierate e mediocri, in linea col mondo in cui si sperperava. Diversamente i giovani degli anni ’90 si sono trovati, paradossalmente, idonei al vuoto e oggi, forse, ancora di più.
Quando si arriva al vuoto, il vuoto resta vuoto, anzi, si propaga. In esso ti arresti e per anni ti interroghi. Dopo anni, davanti allo spazio e al suo vuoto, gli artisti preparatissimi pervengono a qualcosa. Giustamente e meritatamente puoi partecipare a qualche Biennale oppure no, essere sostenuto da qualche galleria oppure no, scegliere un percorso obliante oppure no, ma se incontri il vuoto, anche solo in un opera, ti senti parte di un interrogarsi che, sono sicuro, iniziò già negli anni '90.
Guai a coprire il vuoto, guai a riempirlo. Un grande vuoto evidenzia l’impossibilità di credere in se stessi, trasformando tale impossibilità in una strada ancora percorribile, veritiera. Il vuoto suggerisce di abbandonarcisi, lasciandosi andare a un gesto ripetuto, l’eco di un gesto che si vorrebbe riassaporare, di vitale significato per l’artista (fragile, ingenuo, ma cosciente) destinato ad arrendersi a tale vuoto. E’ con questo meraviglioso senso di appartenenza al vuoto che ripenso ai miei fecondi anni '90.
Scelsi la via più introversa, sempre. Fin dall’inizio, grazie ad un innato talento per il colore, bruciai tutte le possibilità per vivere una pittura che non avrei più potuto rivivere. Una fertilissima attività creativa esautorava lo stesso senso di tale attività, fissando la mia pittura in nostalgia. Trovavo rassicurante una pittura già dipinta nel passato, da amare, per esempio quella creata in Italia e negli Stati Uniti quand’ero bambino, immergendomi in un sogno fragile e pericoloso. Indisturbato, indugiavo in un indistinto storico, producendo una malinconica nostalgia del non vissuto. Non feci fatica ad intuire quanto fosse ammaliante e ingannevole tale situazione. Vivevo i miei anni fuori da una storia, senza una mia storia. La linea rimase introversa, sempre. Dalla sua introversione e timidezza il pittore metteva in luce il proprio dipinto, sintetizzando rapidamente tutte le possibilità di un talento coloristico ormai esaurito.
Nel vuoto dei miei anni '90, senza credere in me stesso, pensai che la pittura, un suo o mio gesto, potessero ancora riuscire. In realtà non capii che l’età dei quadri e delle rassicurazioni storiche era terminata, sparita in un’immensa implosione, certamente angosciante, ma carica di pulsioni più vere, di pensieri tutt’altro che deboli e leggeri. Nel mio vuoto trovai ciò tutt’altro che scoraggiante. Continuai nella mia vana ricerca di una rappresentazione, possibile quanto illusoria, unendo tutte le forze residuali. Inoltre, sul finire di quel decennio, capii che il fantastico e civile astrattismo era morto per sempre. Come artista ho rischiato anch’io di recitare solo una parte. 2019.