Si, ho visto quella scultura penzolante intitolata “You”. L’ho proprio vista, ma non ricordo se davanti ai miei occhi o sul cellulare, comunque l’ho vista, è nitida nella mia mente.
Nello spazio di un noto gallerista con la barba molto lunga, un edificio museificato: Casa Corbellini Wasserman.
Già, una casa ideata negli anni ’30 da un architetto noiosissimo, come molti altri in quegli anni. Si trova in viale Lombardia. Sai, non è molto lontana da piazzale Loreto.
Quel piazzale?
Proprio quello.
Ricordo delle figure in quel piazzale, anche loro appese, ma a testa in giù, morte, vere. C’era anche quella di una donna, ricordo la sua gonna rivoltata, che le copriva parte del volto.
Si, ricordo tutto anch’io in mezzo a tutta quella gente, era proprio tutto vero.
Però non sei ancora stato nella galleria del noto gallerista, Casa Corbellini Wasserman.
No, io diserto certi luoghi, anche se sono delle gallerie.
Quindi quella scultura l’avrai vista sul tuo smartphone.
L’ho comunque vista, questo è sicuro. Non si tratta di una scultura, mi sembra piuttosto un fantoccio, uno scaccia cornacchie, appeso a un filo, una corda al collo, che pende dal soffitto.
E’ un’opera certamente poco riuscita. Lo sguardo, vitreo, lo trovo sprezzante.
Forse questo artista ha voluto rimarcare la nostra origine storica, sociale, culturale; il nostro antico trauma, la nostra lunga vacanza, clericale e fascista, si sarebbe detto svariati decenni fa. O la nostra origine collaborazionista di ogni regime, quindi anche di quello capitalistico, che ha sviluppato tanto benessere materiale etc., etc., etc. In effetti ci sarebbe di che suicidarsi.
Non lo so, credo sia solo un’opera non riuscita. L’artista si suicida, si impicca, capirai!
In realtà, se la realtà non fosse mediata, ogni artista, e non solo lui, si suiciderebbe.
E’ solo un’opera stonata, tipica degli artisti molto affermati, che scivolano nella leccatura, tanto più che è solo il fantoccio di una scultura, le chiamano ancora iperrealiste, nulla di più noioso, come noiosissimi e disgustosi erano i vecchi musei delle cere. E’ un fantoccio vestito di blu, demodé. Ha i piedi nudi, molto curati, finti. In una mano stringe un bouquet di fiori da far venire il voltastomaco.
L’ho visto eccome, anche se in quel posto non credo di esserci entrato e non ci entrerò mai. Penzolava in un lurido cesso, anche se rivestito di marmi, in fondo a un corridoio anch’esso rivestito di luridissimi marmi, tetro, da Gestapo. La faccia del fantoccio, banalmente somigliate al volto del noto artista, cioè l’autore, era così terribilmente respingente da provare vergogna. Pencolante sul suo volto leggevo il ghigno orripilante di un collaborazionista che non cede alla morte, già sopravvenuta. I capelli acconciati, anch’essi demodé, non potevo guardarli, erano pelo ispido di una bestia. Ma la cosa più spaventevole erano gli occhi, vitrei e scuri, di ratto.
Non so dove tu abbia visto questa cosa.
Non lo so neppure io, non ricordo, ma l’ho vista. Forse fa ancora tutto parte di un brutto sogno, che dura da tantissimi anni.
2022