Durante il mio breve soggiorno nel mondo dell’arte Zeno Birolli è stata la persona con la quale ho condiviso il più importante rapporto intellettuale, l’unica possibilità di riflessione sui nostri tentativi pittorici e letterari. Abbiamo trascorso giorni, notti, anni per raggiungere uno straccio di prova in un dipinto, in una pagina scritta, forse allora ignari che nulla si raggiunge. Ho vissuto con lui questa possibilità (un’impossibilità assoluta) finché ho potuto, purtroppo non fino alla fine. Ora questa nostra impalpabile ed evanescente materia, protetta dall’oblio, è al sicuro.
Elaboratissima e aleatoria, la vita non può competere con i giusti ricordi che ci seguono. La mia esistenza ne produce sempre meno, ma alcuni li ha fissati in eterno e li sento presenti alla luce di ogni nuova stagione e al centro, buio e sicuro, di ogni notte. Questi ricordi sembrano sogni. Tra i più fermi vi sono quelli con Zeno. “Caro Stefano, è pomeriggio e sto uscendo. Mi piace uscire con un saluto per te, seguendo pensieri che ci riportano al nostro lavoro.”. Dopo la sua morte penso con maggior dolore. Nel 2002 ci incontrammo per l’ultima volta ad una mia trascurabile mostra. Alla fine ci salutammo, girò l’angolo della strada e non lo vidi più. Brevissime telefonate l’anno seguente.
Nel 2014, un vecchio e caro amico mi disse Zeno è morto. Provai stizza e incredulità, l’incredulità per la mia stessa fine. Pensai: Zeno è morto e son morto anch’io, Zeno non è più qui e non sono più qui nemmeno io, lui è morto e io sono vivo. Forse lo reincontrerò. Un uomo che ha abbandonato l’involucro, amato e sostenuto, potresti incontrarlo anche alla fine della tua lunghissima giornata su questa terra, nell’ultimo momento di gioia e di liberazione. A giudizio io e Zeno ci terremo l’un l’altro, mal coperti e laceri, forse non ci riconosceremo oppure, guardandoci, muoverà le labbra angosciato con quell’espressione vagamente depisisiana, metafisica. Da quel lontano 2002, da quella lontana e trascurabile mia mostra, il mio uomo non mi ha mai mollato. Tutti i giorni nella mia mente non smetto di incontrarlo, solo pochi secondi, ma preziosi. E’ morto ma non se ne va, giustamente. Il dolore è stato determinante per la mia pittura assai povera. Spesso lo incontro nei miei quadri. Nella grande pittura morta e sepolta vedo Zeno vivo. Ma il dolore più forte resta il non condividere più uno straccio di tela con lui.
Il mio sogno è introverso ed è in questo spazio che incontro Zeno, mio e di nessun altro. Nell’introversione del mio sogno scorgo la mia ombra felice, che attraversa la strada e incontra Zeno, sereno. Non sappiamo dove andare, ma forse siamo già sulla costa, fra dei pini, davanti alla grande parete azzurra di un golfo e le sue correnti. Pensai di chiamarlo, non immaginando che stesse morendo; allora mi telefonò il mio vecchio amico per dirmi Zeno è morto. Certe sere, togliendomi le scarpe, le mie scarpe sembrano le sue; massaggiandomi il piede mi sembra di massaggiare il suo.
Durante gli anni ’90, tutte le estati e tutti gli inverni, trascorro numerosi giorni a casa di Zeno e la casa è a La Serra, sopra il golfo de La Spezia. Ci diciamo che quel che i nostri occhi vedono non è più dipingibile. E quando mai lo è stato? Abbiamo ragione: quel puntino luminoso, di notte, nel golfo nero e accogliente, vale così com’è, come noi. L’amore è nell’eternità dello sguardo sulla nostra casa, i nostri corpi, sulla pittura e la sua fine. Ho detto tante volte ciao Zeno. Ho sentito dire da Zeno tante volte ciao Stefano. Ho detto molte volte anche alla madre di Zeno ciao Rosa. Notti fa ci siamo nuovamente incontrati. Mi volto e Zeno, avvicinandosi, mi bacia sulla bocca. Ho sentito la pressione di un bacio ricevuto in sogno. I baci fanno bene, sulla bocca dicono di più, credo fosse il bacio-segnale per un gesto ancora possibile (o impossibile, che è lo stesso), la pittura forse.
Fuori dall’acqua e dall’aria, in un lontanissimo punto, rivedo me stesso; quel giovanissimo “me stesso” mi dice che fra due o tre anni, nel 1980, conoscerà Zeno Birolli a Milano, all’Accademia di Brera, non lontano dalla Rondanini, vicino a San Satiro. Nel mezzo di un sogno si vede di tutto, posso ancora vedere tutto. Sono in un aula semideserta, vedo Zeno giovane, come se per me fosse ancora la prima volta, lo raggiungo e gli dico che ci frequenteremo, saremo amici, forse ci ameremo e che sono stato su questa terra con lui per tanti anni.
Sono in un’aula ormai vuota all’Accademia di Brera, mi sembra di avere ancora 21/22 anni, vedo per la prima volta il mio professore e riconosco colui che vidi al PAC di Milano, alla fine degli anni ’70, parlare fra alcune sculture di Lo Savio, senza che io sapessi chi fosse Zeno Birolli, figlio di Renato Birolli. Fiducioso del mio sogno mi avvicino e senza voce dico ciao Zeno, sono io, ci siamo scambiate molte lettere tra New York e La Serra, in realtà dobbiamo ancora scriverle, ce le scriveremo tutte negli anni ’90 o credi sia meglio, oggi, che io le bruci? Ma poi ho la sensazione, tutt’altro che sgradevole e assai comune, di essere sospeso nel vuoto, insieme a lui. Zeno mi vede, ma non credo che mi stia guardando. 2019.